Giuseppe Scuderi “Le altre stanze della clinica”. Nota critica di Giusi Drago

Premio Bologna in Lettere 2021

Giuseppe Scuderi, Le altre stanze della clinica. Nota critica di Giusi Drago

 

 

La clinica che ci viene presentata da Scuderi è un luogo in cui non è “in programma l’attenzione all’altro”. Può però capitare, anzi è messo nel conto, che qualcuno con le sue grida “disturbi tutti”, pur non facendo rumore. In questo senso la parola disturbo è la chiave per indagare il nesso fra malattia psichica e malattia del linguaggio, specie di quella particolare forma linguistica che è lo scrivere versi.

Scuderi, con spirito indagatore e nomenclatore, lavora a partire dalle classificazioni dello Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders,  (DSM), e i suoi testi ci conducono all’interno di un altrove alienante e di una lingua alienata. Sono proprio i disagi dei malati, le loro angosce e allucinazioni che, con una sorta di coazione, spingono la scrittura a slittare dal disturbo psichico alle considerazioni metatestuali sullo scrivere.

In una poesia il paziente Roberto, 56 anni, affetto da Disturbo di personalità paranoide,

in dialogo con il suo terapeuta dichiara: “Io so che è lei che scrive di me. /Sappia che anche io scrivo di lei. /La scrittura sa sempre tutto degli uomini”.

Che cosa sa la scrittura? Riesce a dare voce a una “vita tutta vissuta / a grattare la morte dalle fessure arrugginite”? Siamo visti, letti e circoscritti dalle nostre parole o non si tratta piuttosto di un tentativo destinato al fallimento? Scuderi adotta lo sguardo obliquo dei pazienti psichiatrici, ciascuno etichettato secondo il suo disturbo di personalità, per farci sentire la frammentazione della presunta unità individuale in una pluralità di voci. Persino l’unitarietà del male è messa in dubbio: “il male non è niente di intero”. La poesia è mimetica nel senso che imita modi divergenti di attingere la realtà, anche stilisticamente: con il ricorso ad assonanze, rime a fine verso e rime interne, cortocircuiti logici, modalità enunciative più spesso dialogiche che monologiche. L’insieme dei personaggi costituisce una coralità eretica che apre squarci nelle ipocrisie e nelle certezze della normalità, ma anche nelle contraddizioni e nella ferocia della malattia mentale, o classificata tale. Vediamo due esempi: 

 

Luca, 26 anni

Disturbo Bipolare di tipo II

 

Non dovete temere,

per voi l’anima sarà sempre vera.

La realtà non aprirà mai la sua cerniera.

 

Andrea, 39 anni

Disturbo generalizzato d’ansia

 

Il male non è niente di intero,

ma nel liquido amniotico delle coperte,

scorrono spighe di grano-luce nelle superfici.

E con quale precisione poi! – mi dici,

ti ritrovo a fucilare

l’ignoto,

le fiamme dell’ansia,

la tua figura che si annulla,

un dolore che poi,

non contiene nulla.

 

Particolarmente complessa è la poesia finale della raccolta, dedicata a un catatonico. Due versi sono cancellati con barratura, cioè vengono dichiarati cancellati, ma non lo sono veramente, perché si possono leggere sotto la barratura.

 

Francesco, 32 anni

Catatonia

 

Il vuoto che possiede

                                è parantesi dei (contenuti)

[detenuti].

 

Scusate,

             la parola vuoto

è sbagliata.

 

Il soggetto catatonico è in un certo senso posseduto dal vuoto e vorrebbe forse comunicarci che la catatonia è un tentativo di mettere fra parentesi ogni contenuto. Ma questo è eccessivo, e la comunicazione va abortita prima ancora di andare a segno: già riconoscere che c’è un vuoto che ti possiede è un contenuto, che va negato con la barratura. Scuderi gioca anche con la messa fra parentesi – prima tonda e poi quadra – dei contenuti e presenta il vuoto come “parentesi dei (contenuti)”: si tratta di una parentesi di contenuti fra parentesi, anzi  “detenuti” da una parentesi [quadra]. Ammesso che si possa ancora chiamarli contenuti, così come ammesso che si possa chiamare vuoto ciò che possiede il catatonico. Qui il dubbio stesso è messo in dubbio. Il che costituisce un ottimo esercizio di spaesamento e scetticismo.