Premio Bologna in Lettere 2023 – Maria Pia Quintavalla – Nota critica di Daniele Barbieri

Premio Bologna in Lettere 2023

Sezione A (Opere Edite)

Nota a Maria Pia Quintavalla Estranea (Canzone)

puntoacapo Editrice

 

Cosa vuol dire capire la musica? Oppure, detto in altro modo, quand’è che di un brano di musica non ci capiamo niente? La situazione è certamente diversa da quella del testo verbale: grosso modo, quando pensiamo di aver capito un testo verbale siamo in grado di dire di che cosa parla, e di riassumerne le argomentazioni o la narrazione. Di un testo verbale del quale non ci capiamo niente non sappiamo dire di che cosa parla, o forse cogliamo il tema ma non sappiamo dire che cosa il testo ne dice. Ma la musica non argomenta e spesso nemmeno racconta (benché qualche volta ci provi). Per questo, quando qualcuno dice di un pezzo di avanguardia novecentesca che non ci capisce niente non sta dicendo che non saprebbe dire di che cosa parla, perché non lo saprebbe dire nemmeno di un allegro di Vivaldi, e tuttavia di quello non direbbe che non ci capisce niente. In quello che intuitivamente intendiamo con l’espressione capire la musica è in gioco la nostra capacità di seguire il gioco: il tema, il suo sviluppo, la ripresa, la variazione, l’ingresso di un nuovo tema, il suo sviluppo, il ritorno del primo tema… Se capisco, è perché la logica di queste evoluzioni non mi è aliena: le evoluzioni mi sorprendono (altrimenti mi annoierei) ma quando arrivano trovano senso in me, cioè le comprendo, le posso accettare, riconosco anche il filo che le lega l’una all’altra. Una musica dove non si capisce niente è una musica dove non siamo capaci di riconoscere questo filo, e quindi di cogliere l’unità di fondo.

Pensiamo di solito alla poesia come a un’arte verbale, e in questa prospettiva capire una poesia sarebbe aver capito di che cosa parla e che cosa si dice di questo. Ma questa è solo la superficie dell’arte poetica, qualche volta una pura pellicola che riveste quello che conta davvero. Sotto questa superficie, capire la poesia assomiglia molto di più al capire la musica che al capire i testi verbali (in prosa).

Quando pensiamo alla canzone, ci aspettiamo di solito un testo verbale abbastanza facile da capire cantato su una musica particolarmente facile da capire (una musica cantabile, appunto). Se il testo verbale è astruso, diciamo che è una canzone astrusa; ma se la musica è astrusa, quella non è nemmeno una canzone. Se è davvero una canzone, insomma, il livello musicale deve restare comprensibile; dobbiamo poterci trovare facilmente un filo, riconoscere facilmente l’unità di fondo.

Esiste poi la musica a programma. Un brano esclusivamente strumentale può talvolta descrivere un temporale, una notte d’amore, lo scorrere di un fiume nel suo corso o strani e cruenti riti primaverili. In questi casi, di solito, la parola non è veramente assente: si trova nel titolo (“Verklärte Nacht”, “La Moldava”…) o nella situazione teatrale (“Le sacre du printemps”). Basta poco, indubbiamente, ed ecco che la musica si trova dispiegata a una doppia comprensibilità: come musica e come racconto. Posso capirla su uno dei due livelli senza cogliere davvero l’altro. Ma sto al gioco davvero solo se li capisco tutti e due.

Il gioco di Estranea è quello di una Canzone in cui la struttura musicale conta di più di quella verbale (argomentativa o narrativa che sia), ma che, ciononostante, è fatta di parole che compongono discorsi. Eppure, sembra che per dare un senso unitario a questi discorsi sia necessario leggere le Note che, a fine opera, descrivono un percorso narrativo che in ciascuna sezione si trova più esemplificato che descritto. Senza queste Note, il livello di comprensione che se ne può avere assomiglia molto di più a quello della musica. Con le Note, come nella musica a programma, emerge anche un racconto, la cui comprensione si accompagna e associa a quella musicale. Eppure, proprio come nella musica, qui il testo poetico non descrive, non racconta. Getta semmai dei flash, delle subitanee evocazioni, delle allusioni; crea un’atmosfera, un registro, un andamento. Si nutre di ritorni, di variazioni, di ingressi di nuovi temi, di ritorno dei vecchi su registri nuovi. Nella Prefazione alla prima edizione, Andrea Zanzotto parla di “Un fiume lavico, imploso, in cui galleggiano come detriti i fatti della vita, della politica, della famiglia, del femminile, della ricerca letteraria, a blocchi o a zolle, che si rimescolano: una storia privata e collettiva che è anche, come abbiamo detto, storia della poesia del Novecento (non solo italiano) e del modo in cui Quintavalla vi si affaccia.”

E in questo flusso più musicale che narrativo il Luzi ermetico emerge non meno (e non di più) del Sanguineti neoavanguardista. L’amore per gli arcaismi, lessicali e metrici, si accompagna a quello per i neologismi. Tutto, potenzialmente, fa brodo, perché tutto questo sta già depositato in noi, e risuona, quando toccato nel modo giusto, come le corde di un pianoforte o di una chitarra.

Eppure, al tempo stesso, tutto questo ci è estraneo, ne siamo separati (benché ne sentiamo spasmodicamente il bisogno) e non possiamo che esprimerlo attraverso il filtro dell’ironia. Ma è proprio l’ironia il fattore più tragico, perché testimonia l’impossibilità di partecipare veramente al mondo del mito, pur nel momento stesso in cui gli si dà vita. Estranea (Canzone) è un piccolo poema dantesco (talvolta esplicitamente tale) dove l’inferno è quello del racconto decostruito del sogno, quando il suo protagonista al tempo stesso siamo noi e non lo siamo davvero, perché già sappiamo che stiamo sognando, e il nostro vero io si sente già altrove. Già, ma dove? Siamo sul punto di afferrare il senso di quello che sta succedendo, ma il senso ci sfugge – come quello di una musica quando pretendiamo di sapere che cosa ci dice.

Alla ricerca del suo tempo perduto, Maria Pia Quintavalla non ne ritrova che schegge, appena evocabili, in verità irrecuperabili, nemmeno organizzabili in un racconto, e quindi estraniate, inevitabilmente da prendere con amaro distacco. Flusso musicale come flusso del vivere. Sulla pretesa di dirlo davvero non si può che essere ironici: nessuna consolatoria comprensibilità. Sul lettino dell’analista, a trasformare la pulsione in racconto, non si può affatto arrivare; e sarebbe comunque un falso. Questa tragedia viene testimoniata qui. (Daniele Barbieri)